Quando Cassius Clay, alias Muhammad Alì, morì, il 3 giugno 2016, in piena campagna elettorale, Donald Trump gli dedicò un tweet di circostanza, senza guizzi né affetti: quell’eroe americano, nonostante il – o forse proprio grazie al – rifiuto di andare in Vietnam, pagato con il carcere, non era nel suo Olimpo. E, negli Usa di Trump, la gloria “del più grande” non si riverbera, evidentemente, sui suoi figli.
Muhammad Alì Jr, 44 anni, figlio minore della leggenda della boxe, campione olimpico a Roma 1960, campione del mondo dei massimi a più riprese dal 1964, ultimo tedoforo ad Atlanta 1996, nonostante il Parkinson, è stato fermato all’aeroporto di Fort Lauderdale, in Florida, e interrogato per due ore presso l’ufficio immigrazione. L’uomo era in compagnia della madre.
L’episodio, riferito dall’avvocato della famiglia, è avvenuto lo scorso 7 febbraio, ma se ne è avuta notizia solo due settimane dopo. Mohammed Alì Jr e Khalilah Camacho-Ali stavano rientrando dalla Giamaica. ‘Sei musulmano? Da dove hai preso il tuo nome?’, sono state le domande più volte ripetute al figlio del campione dai funzionari dell’immigrazione, prima d’autorizzarne l’ingresso negli Stati Uniti.
Difficile non leggere nell’episodio un riflesso delle misure anti-Islam decise dal presidente Trump, a fine gennaio, e poi annullate dai giudici federali degli Stati Uniti – ma il 7 febbraio c’era ancora incertezza in merito -. L’Amministrazione s’appresta a emanare una nuova versione riveduta e corretta del bando contro gli ingressi negli Usa dei rifugiati e dei cittadini di alcuni Paesi islamici.
Il trattamento toccato a Mohammad Alì Jr è un oltraggio alla memoria del padre: Cassius Marcellus Clay, scomparso a 74 anni, si legò al gruppo afro-americano Nation of Islam di Elijah Muhammad e si convertì all’Islam, cambiando legalmente il suo nome in Muhammad Ali. Molto influenzato dall’ammirazione per Malcolm X, Alì lasciò poi Nation of Islam e praticò la religione seguendone la tradizione sunnita, prima di avvicinarsi alla dottrina più mistica del sufismo.
L’episodio di Fort Lauderdale accresce le tensioni nell’imminenza della Notte degli Oscar. L’attrice e regista Jodie Foster ha organizzato, con Michael J. Fox, una manifestazione contro Donald Trump e pro-immigrati e rifugiati, proprio a Los Angeles a poche ore dalla notte degli Oscar. La Foster, vincitrice di due Oscar, appare raramente in pubblico, ma – dice – “è il momento di farsi sentire”.
Nella manifestazione, è stato mostrato un video messaggio del regista iraniano candidato all’Oscar Asghar Farhadi, che non sarà alla consegna dei premi per protesta contro il bando di Trump anti-Islam. Non ci sarà neppure il direttore della fotografia di un documentario in corsa per gli Oscar, ‘The White Helmets’: Khaled Khatib, 21 anni, siriano, non è stato autorizzato a entrare negli Usa perché non sarebbe stato in possesso di un documento valido.
Il film, prodotto da Netflix, racconta le gesta della difesa civile siriana, organizzazione umanitaria formatasi durante la guerra civile i cui membri indossano caschi bianchi, da cui il nome e il titolo. Diretto da Orlando von Einsiedel, ‘The White Helmets’, che dura 40 minuti, corre nella categoria dei cortometraggi.