Donald Trump chiama il suo popolo in piazza, contro la libera stampa, che per lui sono i ‘fake news media’: “Forse i milioni di persone che mi hanno votato per ‘Fare l’America di nuovo grande’ dovrebbero inscenare la loro protesta. Sarebbe la più grande di tutte!”. All’alba di sabato, il tweet del presidente apre l’ennesima giornata di aspre polemiche negli Stati Uniti, da cinque settimane, cioè da quando Trump s’è insediato alla Casa Bianca, traversati da cortei e manifestazioni.
Il giorno dopo la decisione di escludere dal briefing alla Casa Bianca i corrispondenti di New York Times, Los Angeles Times, Cnn e Politico, ufficialmente “perché la sala stampa era troppo piena”, Trump lancia nuove critiche a media e giornalisti: “Non hanno scritto che il debito nazionale è sceso di 12 miliardi di dollari nel mio primo mese”, mentre era aumentato di 200 miliardi di dollari nel primo mese di presidenza di Barack Obama. Come se le condizioni economiche e finanziarie degli esordi di Obama, nel pieno della crisi ereditata da George W. Bush, fossero lontanamente paragonabili alle attuali; e come se il miglioramento fosse merito suo.
L’ostracismo ai media ‘nemici’ attuato dal portavoce della Casa Bianca Sean Spicer ha innescato atteggiamenti solidali in molte testate, a partire dall’Ap, la maggiore agenzia di stampa mondiale. Sul Washington Post, viene ripescata una dichiarazione di Spicer recentissima: “L’accesso aperto – ai media, ndr – è quello che contraddistingue una democrazia rispetto alla dittatura”: roba da dare ragione ai timori di dittatura espressi dal senatore McCain.
Intanto, la Casa Bianca difende il capo dello staff Reince Priebus dall’accusa di avere violato protocolli governativi chiedendo al direttore dell’ Fbi James Comey di confutare le indiscrezioni secondo cui la campagna di Trump avrebbe avuto contatti con l’intelligence russa prima del voto. Inchieste sul tema sono in corso da parte dell’Fbi e del Congresso.
Per Spicer, Priebus non aveva alternativa a sollecitare l’intervento di Comey per confutare “reportage inaccurati”. L’Fbi, però, non ha accolto la sollecitazione della Casa Bianca e non ha finora dato segno di volerlo fare.
Il dipartimento di Giustizia ha protocolli per limitare le comunicazioni tra la Casa Bianca e l’ Fbi quando ci sono indagini in corso. Le dichiarazioni di Spicer confermano i contatti di Priebus, ma indicano che sarebbe stata l’ Fbi ad avvicinare per prima la Casa Bianca per verificare la veridicità delle indiscrezioni pubblicate dal New York Times.
Il WP scrive, inoltre, che Trump e i suoi avrebbero cercato d’ ‘ingaggiare’ dirigenti dell’intelligence ed esponenti del Congresso per confutare le notizie sui contatti con l’intelligence russa. Sollecitate dalla Casa Bianca, le fonti hanno telefonato a vari media la scorsa settimana fornendo versioni che ridimensionano natura e frequenza dei contatti intercorsi, parlando sotto anonimato (una prassi che il presidente considera inaccettabile per le fonti giornalistiche). Le telefonate sono state orchestrate – precisa il WP – dopo che l’Fbi non aveva raccolto l’invito ricevuto. Nessuno dei media contattati ha tuttavia fatto proprie le nuove versioni offerte.
Le varie mosse dell’Amministrazione Trump, verso l’intelligence e verso i media, possono apparire come una minaccia all’indipendenza della Fbi e delle agenzie di spionaggio, che debbono rimanere al di sopra delle parti, e un attentato alla credibilità dell’inchiesta del Congresso. Tra gli ‘arruolati’ nell’operazione ‘salvate il generale Flynn’, ma in realtà ‘salvate il presidente Trump’, i presidenti delle commissioni intelligence di Senato e Camera Richard Burr e Devin Nunes, che spiegano d’avere voluto correggere una copertura giornalistica che ritengono erronea.
Su un altro fronte, il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale, il generale McMaster, sconfessa, incontrando il proprio staff, l’uso dell’allocuzione “terrorismo islamico radicale”, perché i terroristi sono “anti-islamici”. McMaster è convinto che gli Usa abbiano bisogno degli alleati musulmani nella lotta al terrorismo e non debbano fare il gioco della propaganda jihadista, avallando l’idea d’una guerra di religione.
Ai margini degli scontri di Trump con media e intelligence, i democratici ad Atlanta riorganizzano il partito e ne eleggono il nuovo presidente. Il duello è tra due figure che rappresentano le due principali anime del popolo dem: quella moderata, che fa riferimento a Obama e ad Hillary Clinton e appoggia Tom Perez, 55 anni ex ministro del Lavoro di origini ispaniche, e quella più liberal, che fa riferimento al duo Bernie Sanders ed Elizabeth Warren e appoggia Keith Ellison, 53 anni, afro-americano del Minnesota, primo musulmano della storia eletto in Congresso.