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Usa: Obama, “Yes we can, Yes we did”, ma non basta

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/01/2017

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Sì, ‘Yes we can’. E sì, ‘Yes we did’: molto, ma non tutto, non abbastanza. Per Barack Obama, primo presidente nero degli Stati Uniti, la scena della fine è quella dell’inizio: un palco in piazza nella sua Chicago. Ma il clima non è lo stesso: dove c’era la speranza, domina l’incertezza. E, così, il congedo ha più i toni del rimpianto che del trionfo, tra i moniti e i pianti del presidente e di molte delle 20mila persone presenti; e corrono brividi di freddo e di paura, per quello che potrà presto essere l’America di Trump.

Obama ammette di non avere vinto le battaglie contro le diseguaglianze sociali e le tensioni razziali e promette che continuerà a impegnarsi per il bene dell’Unione. Se la notte proverbialmente porta consiglio, questa volta porta scompiglio: mentre Obama dice “Resto al vostro fianco da cittadino” e “Non smetterò di servire l’America”, l’intelligence avverte che i russi avrebbero informazioni scottanti, anche volgari, su Donald Trump e potrebbero ricattare il presidente eletto.

Tra il discorso della vittoria e quello del commiato, otto anni talora contraddittori, talora deludenti, raramente esaltanti. Sul palco di Chicago, davanti a 20 mila persone che sono la sua gente – molti erano lì anche quella sera del 4 novembre 2008, per acclamare lui e Michelle, una coppia ancora giovane, e Malia e Sasha, ancora due bambine -, Barack si commuove.

Non è la prima volta. Forse, anzi, l’ha fatto troppe volte, cedendo progressivamente all’emotività, davanti all’inanità degli sforzi contro le armi facili, le uccisioni gratuite, l’ostilità agli immigrati. Lascia un’America senza bussola, capace di mobilitarsi sul web per l’assenza sul palco di Chicago di Sasha, la figlia piccola (dove sarà mai?, a casa, a studiare, perché ieri aveva un’interrogazione) più che per le parole del presidente.

L’ultimo messaggio è un invito a non tradire i valori dell’America, a non diventare come la Russia, che è un’autocrazia, o la Cina, che resta una dittatura comunista, a non accettare una società basata sulle discriminazioni, che siano verso i diversi, i neri, gli immigrati, i musulmani. Obama cita Atticus Finch, l’avvocato dell’Alabama de ‘Il buio oltre la siepe’ di Harper Lee: “Non capirai mai una persona fino a quando non guardi le cose dal suo punto di vista”. Nel libro e nel film, l’avvocato Finch difende un giovane nero da un’accusa ingiusta, ma prima di tutto dai pregiudizi.

C’è autocritica, nel discorso di Obama: “Abbiamo fatto progressi, ma molto ancora resta da fare”. C’è qualche ‘abbellimento’ della realtà: “Abbiamo cambiato l’America, che oggi è migliore”. Migliore?, l’America che elegge Trump; che deve condannare a morte Dylann Roof, un ragazzotto che nel 2015 a vent’anni uccise per razzismo nove neri in una chiesa di Charleston, S.C.?, che tiene aperta da 15 anni esatti la prigione mostro di Guantanamo, dove restano ancora 55 detenuti?

Tra gli applausi e un’ovazione per Michelle, Barack distribuisce moniti a chi lo ascolta, a chi gli dà il cambio senza raccoglierne l’eredità, anzi rifiutandola: il terrorismo integralista e il sedicente Stato islamico saranno veramente sconfitti “se non tradiremo i nostri valori”; e il cambiamento climatico è una minaccia per le generazioni future, “le tuteleremo solo se non lo negheremo”. “I passi avanti fatti nel nostro lungo viaggio verso la libertà non sono – avverte – irreversibili”.

Spotify gli offre un lavoro, la rete lo esalta o lo insulta, Madonna lo saluta su Instagram ‘Mai più uno come te’, Michelle e Malia lo abbracciano sul palco: a guardare la foto di famiglia, non otto, ma vent’anni sono passati.

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gphttps://www.giampierogramaglia.eu
Giampiero Gramaglia, nato a Saluzzo (Cn) nel 1950, è un noto giornalista italiano. Svolge questa professione dal 1972, ha lavorato all'ANSA per ben trent'anni e attualmente continua a scrivere articoli per diverse testate giornalistiche. Puoi rimanere connesso con Giampiero Gramaglia su Twitter

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