Incontrarsi per dirsi addio, anzi arrivederci: sulle panchine ai giardinetti della storia. A Berlino, ieri, il Vertice delle anitre zoppe è stato soprattutto questo: l’ultimo saluto del presidente Barack Obama ai leader europei; e viceversa. Amicizia in qualche caso sincera, sorrisi un po’ tirati, strette di mano e pacche sulle spalle: se ne va un decano della combriccola transatlantica – solo Angela Merkel ha un’anzianità di servizio superiore -, si chiude una pagina lunga otto anni, se ne sta per aprire un’altra fatta di punti interrogativi.
Erano tutti a Berlino, i leader europei, con un orecchio a Washington e con l’occhio a casa loro, dove molti hanno problemi grossi – alcuni neppure sono sicuri di avere il tempo di conoscere Donald Trump, il presidente eletto degli Stati Uniti -.
Chi sperava che Obama spiegasse ai partner l’America che verrà è rimasto deluso (ed è ripartito preoccupato): se l’arrivo di Trump alla Casa Bianca “non è l’apocalisse”, ma solo perché “la fine del Mondo è quando il Mondo finisce”, l’analisi del presidente uscente equivale a “fin che c’è vita c’è speranza”. E l’invito a lavorare col suo successore per cercare soluzione “ai problemi comuni”, sulla base “dei valori condivisi”, suona ovvio e non troppo convinto.
Obama era seduto tra la Merkel e Matteo Renzi, al tavolo del Vertice nella Cancelleria; e c’erano pure François Hollande, Mariano Rayoj, Teresa May. Dall’incontro non scaturiscono decisioni, ma piuttosto labili indicazioni: le sanzioni alla Russia per l’Ucraina restano, almeno fino a che Trump non s’insedierà alla Casa Bianca; e in Libia ci vuole un governo stabile. Di immigrazione, assicura la Merkel, non s’è parlato, perché gli europei non volevano affliggere Obama con lo spettacolo delle loro divisioni.
Quando già Obama è in volo per il Perù, dove, oggi e domani, lo attende un altro rito di congedo, stavolta dai Paesi del Pacifico, da Washington giunge notizia che il presidente ha battuto un pugno sul tavolo del Congresso repubblicano: ha bloccato tutte le nuove trivellazioni nell’Artico, tenuto conto del carattere “unico e difficile” di quell’ambiente.
Trump ci metterà un rigo di penna a cancellare questa decisione, come a ripristinare il gasdotto Keystone dal Canada al Texas. Ma, intanto, il magnate e showman snocciola nomine, che vanno tutte nello stesso senso: pare di stare in un film sul razzismo aristocratico del Profondo Sud, stile l’Alabama di ‘A spasso con Daisy’ o il Mississippi di ‘The Help’.
Ieri, Trump ha indicato due personaggi molto discussi per il ministero della Giustizia e la direzione della Cia: il senatore Jeff Sessions (Alabama) e il deputato Mike Pompeo (Kansas). Prima, Trump aveva scelto, come consigliere per la Sicurezza nazionale, il generale Michael T. Flynn, 57 anni, un democratico uscito dall’Amministrazione Obama ed entrato nelle sue fila in campagna elettorale.
Sessions, 69 anni, è favorevole all’espulsione degli immigrati irregolari ed è contrario all’aborto ed ai matrimoni fra omosessuali. Contro di lui, venature razziste, costategli il posto di giudice federale, e una battuta sul Ku Klux Klan: “Mi piacevano, ma poi ho saputo che fumano marijuana”.
Pompeo, 59 anni, origini italiane, è un Tea Parti vicino al vice-presidente Mike Pence: la priorità è l’abolizione dell’accordo sul nucleare con l’Iran, “disastroso” perché fatto “con lo Stato principale sostenitore del terrorismo al Mondo”.
Mancano ancora tasselli importanti, gli Esteri, la Difesa, il Tesoro. E, nel fine settimana, Trump vedrà, fra gli altri, Mitt Romney, il suo maggiore antagonista nel partito repubblicano.
Pubblicato da Giampiero Gramaglia a 08:16 Nessun commento:
venerdì 18 novembre 2016
Usa 2016: Trump, gente che va, Yellen che resta e le grane della squadra
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/11/2016
Se l’obiettivo era tenere Donald Trump lontano dallo Studio Ovale, i democratici sembra l’abbiano raggiunto, almeno per un anno. Ma se l’obiettivo era tenerlo lontano dal potere, allora è un altro discorso. Per un bel pezzo del suo mandato alla Casa Bianca, il presidente eletto sarà forse costretto a trasferirsi “nel vecchio ufficio di Richard Nixon nell’Old Executive Office Building”. Un riferimento non proprio incoraggiante.
Lo rivela alla Fox Karl Rove, l’ex consigliere di George W. Bush: Barack Obama non ha voluto avviare i lavori di restyling del suo ufficio – questioni di sicurezza, non solo di tappezzeria -, preferendo lasciarne le scelte al suo successore. Per Trump, che è a suo agio anche nella lussuosa casa / ufficio sulla 5° Strada a New York, non sarà un grosso problema.
A impegnare il magnate in queste ore, non sono i problemi logistici, ma la definizione della squadra da mettere in campo alla guida dell’Unione. C’è chi se ne va – il direttore dell’Intelligence James Clapper -; e chi promettere di restare, magari remando contro-corrente – la presidente della Fed Janet Yellen -.
Clapper è il primo alto dirigente dell’Amministrazione Obama a dare le dimissioni, anche se – dice, durante un’audizione in Congresso – “ho ancora 64 giorni” (lascerà il giorno dell’uscita di scena d’Obama).
Le dimissioni dei vertici delle Agenzie federali dell’Amministrazione uscente sono una prassi, dopo l’elezione presidenziale, nell’ottica di un rinnovamento degli incarichi, soprattutto per i ruoli più delicati e di fiducia, come quelli dell’intelligence. Nessun segnale finora da altri alti dirigenti, come il direttore dell’Fbi James Comey, che ha giocato un ruolo forse decisivo nell’elezione di Trump, riaprendo le indagini sull’emailgate, a carico di Hillary Clinton, a dieci giorni dall’Election Day e richiudendole dopo una settimana, a ridosso del voto. Comey, se vuole, può restare al suo posto fino a fine mandato.
Chi non ci pensa proprio ad andarsene, né può essere rimossa, è la Yellen, che dal 2014 è alla guida della Federal Reserve: “Non vedo perché non potrei servire l’intero mandato alla Fed. Ho intenzione di restare per tutti i miei quattro anni”. Trump l’ha recentemente accusata di essere politicizzata, alimentando le indiscrezioni che in caso di una sua vittoria si sarebbe dimessa. Ma la Yellen non gli darà questa soddisfazione: mette in risalto i progressi dell’economia sotto la guida di Obama (e sua) ed è cauta sulle intenzioni espresse dal presidente eletto. ”Quando le nuove politiche saranno chiare, la Fed ne terrà conto nel fare le sue valutazioni”, guardando soprattutto all’impatto sull’occupazione.
Gente che va, gente che resta. E chi arriva? Qui, dopo le nomine degli addetti alla cucina interna della Casa Bianca, Priebus e Bannon, Trump s’è un po’ arenato sullo scoglio del segretario di Stato: alla sua prima scelta, Rudolph Giuliani, l’ex sindaco di New York, la stampa ha scovato conflitti d’interesse; al candidato del partito, l’ambasciatore John Bolton, molti rimproverano rigidità e asprezze di carattere. E’ saltato fuori il nome di Nikki Haley, governatrice della South Carolina, figlia d’immigrati indiani, astro nascente della destra moderata: una bella scelta, se non fosse che Nikki, in campagna elettorale, spesso s’è esplicitamente schierata contro Trump. Che, intanto, riceve Henry Kissinger, per cominciare a capirme qualcosa di esteri, e s’appresta a incontrare il primo leader straniero, il premier giapponese Shinzo Abe.
Il presidente eletto ha ancora problemi con il team che deve gestire la transizione – i lobbisti ne escono – e con le ambizioni dei familiari, figli e genero. Inoltre, alcuni ex rivali divenuti suoi sostenitori si presentano all’incasso: a parte il cado del governatore del New Jersey Chris Christie, che non si capisce se sia caduto in disgrazia, s’è fatto avanti il guru nero, ed ex neuro-chirurgo, Ben Carson, che si propone come responsabile dell’educazione nazionale: il suo credo oscurantista è il biglietto da visita giusto per l’America fondamentalista e creazionista.