Scritto per AffarInternazionali lo 08/06/2016
Che la campagna cominci!, a 150 giorni esatti dall’Election Day dell’8 Novembre, la partita può iniziare. E tutto quello che è successo finora?, un anno di prove e rodaggi, quattro mesi di voti e assemblee di partito? Tutto incasellato nelle cartelle della cronaca e della storia. Hillary Clinton e Donald Trump, forti d’una nomination conquistata a furia di suffragi e delegati, girano oggi pagina e hanno di fronte un foglio bianco.
Su cui presto scorreranno fiumi di parole e un mare d’inchiostro. Comunque vadano le cose, il 46° presidente degli Stati Uniti avrà un che d’inedito, anche se Hillary è sulla breccia politica da almeno trent’anni e Donald riempie di sé le cronache da un tempo parallelo: se vincerà l’ex first lady, sarà la prima volta d’una donna alla Casa Bianca; e se vincerà il magnate dell’immobiliare, sarà l’esordio alla testa dell’Unione di una persona che non ha mai ricoperto nessun ufficio elettivo e che non ha nessuna esperienza di gestione della cosa pubblica.
I due candidati corrono rischi analoghi: entrambi hanno passati personali e professionali spessi ed hanno armadi zeppi. Da lì, la stampa americana cercherà di tirare fuori scheletri d’ogni tipo, oltre quelli che già volteggiano sulla campagna: per la Clinton, l’emailgate, l’uso dell’account privato quand’era segretario di Stato, ed anche i discorsi profumatamente pagati e tenuti segreti; per Trump, le inchieste per truffa sulle sue Università, che lo rendono nervoso e gli fanno perdere la misura – tanto da usare toni razzisti contro il giudice di San Diego d’origine messicana -, oltre che le storie dei suoi affari fallimentari, i casinò di Atlantic City, la compagnia aerea.
Nell’ultimo Super Martedì di queste primarie, la Clinton ha arginato l’erosione di credibilità che stava subendo e ha consolidato la legittimazione della sua nomination a candidata democratica vincendo più largo del previsto in California e imponendosi pure in New Jersey, New Mexico e South Dakota, mentre Bernie Sanders, il suo rivale, suggellava una campagna al di sopra delle attese con successi nel Nord Dakota e Montana.
Dopo la chiusura dei seggi nel New Jersey, e mentre ancora si votava in California, l’ex first lady, già sicura di avere avuto la maggioranza assoluta dei delegati alla convention democratica di fine luglio a Filadelfia, pronunciava il discorso della vittoria che l’era rimasto in gola otto anni or sono, quando, esattamente il 7 giugno, aveva ceduto le armi all’allora senatore Barack Obama.
Cosa che Sanders non ha ancora fatto nei suoi confronti e che, per il momento, non intende fare: dopo avere ricevuto una telefonata di Hillary, ha parlato ai suoi sostenitori, ha esortato a battersi “insieme” contro Trump, ma non ha riconosciuto d’avere perso la corsa alla nomination. Anche se s’appresta a congedare almeno la metà del suo staff: un segnale di smantellamento inequivocabile.
L’ex segretario di Stato, raggiante sul palco con accanto il marito Bill, ha detto, nel suo discorso, d’avere infranto il soffitto di cristallo che si frapponeva tra le donne e la nomination. Ora le tocca battere un avversario che fa leva “sulla paura”, più showman di lei, ma molto meno affidabile.
In termini di delegati, la Clinton chiude con un vantaggio di oltre 500 sul senatore del Vermont, senza contare i Super Delegati: i calcoli saranno precisi nelle prossime ore, ma è già chiaro che, dopo il successo in California più largo di tutte le previsioni, l’ex first lady s’avvicina e forse supera la maggioranza assoluta solo con i delegati eletti. Perde così forza una contestazione di Sanders, secondo cui i notabili del partito non assegnati tramite voto – e che nella stragrande maggioranza si sono dichiarati per Hillary – debbono essere conteggiati solo alla convention, potendo cambiare campo fino all’ultimo istante.
Il presidente Obama s’è congratulato con la Clinton e con Sanders per la loro campagna e dovrebbe presto incontrarli: il presidente s’è già messo al lavoro per l’unità dei democratici contro Trump.
Negli ultimi giorni, secondo il Wall Street Journal, la squadra del senatore del Vermont s’è divisa: ci sono i ‘sanderistas’, i guerriglieri della nomination, che vogliono battersi fino alla convention; e le colombe, pronte ad ammettere la sconfitta e a ricompattare il partito dietro l’ex first lady.
Sanders sembra stare con i suoi ‘ultras’ e prospetta una convention democratica politicamente “aperta”: in ballo non tanto la nomination, quanto la linea.
Se avesse inanellato sconfitte nell’ultimo Super-Martedì, l’ex first lady si sarebbe fortemente indebolita. In questa ipotesi, ancora il WSJ, nel fine settimana, prospettava un ribaltone: fuori Hillary e Sanders, elisisi a vicenda; e dentro un ‘usato sicuro’, come John Kerry, candidato nel 2004, o Joe Biden, il vice-presidente. Fanta-politica, probabilmente, a questo punto.
La California era la chiave di volta di questo discorso: una batosta lì, lo Stato più popoloso e ricco dell’Unione e uno dei più influenti al mondo nel campo culturale e dell’innovazione (tra Hollywood e Silicon Valley), sarebbe stata un segno di debolezza e di friabilità. E’ invece venuto un successo largo, che le ridà fiducia e slancio.
Fra i repubblicani, il problema non si pone: i Super-Delegati non ci sono e Trump è da tempo rimasto senza avversari e ha già conquistato la maggioranza assoluta: lui lusinga Sanders e ammicca ai ‘sanderistas’, come se potessero trasferirsi nel suo campo; e attacca la Clinton sui soliti fronti, l’accusa di avere usato il Dipartimento di Stato come un bancomat per la sua Fondazione e promette nuove rivelazioni nei suoi confronti nei prossimi giorni. Ma il sostegno dei conservatori moderati alla sua candidatura resta tiepido e le bordate di Trump contro il giudice di San Diego hanno aperto nuove crepe nel fronte repubblicano.