Scritto per Il Fatto Quotidiano e, in diversa versione, per Metro del 17/05/2016
Nel giorno in cui la comunità internazionale rinnova a Vienna il proprio appoggio al premier libico Fayez al-Serraj e al suo governo di unità nazionale, la vicenda dei migranti s’intreccia a filo doppio con la crisi libica. E l’alto commissario dell’Onu per i rifugiati, l’italiano Filippo Grandi, dice che respingere i profughi non è la risposta a un “fenomeno globale”.
Le parole di Grandi alla Bbc sono una critica all’accordo tra Ue e Turchia e pure al pattugliamento delle coste della Libia contro i traffici di persone. Risposte giuste sarebbero maggiori aiuti ai Paesi in difficoltà economica e più accoglienza ai rifugiati: nel 2015, su 20 milioni di richiedenti asilo, solo l’1% è stato accolto da un Paese diverso da quello di primo approdo. Altro che redistribuzione.
Con le parole di Grandi cozzano quelle del candidato repubblicano alla Casa Bianca Donald Trump, secondo cui i rifugiati in arrivo negli Usa compiranno attacchi terroristici “inimmaginabili”, paragonabili a quelli dell’11 Settembre. La previsione dello showman si basa sull’affermazione che “i rifugiati arrivano senza soldi, senza niente, ma con telefonini con sopra la bandiera” del sedicente Stato islamico: “Chi li paga?”.
Se queste sono le premesse di una eventuale futura presidenza Trump, meglio affrettarsi a risolvere le crisi del Mondo prima che ci pensi lui. In Libia, la comunità internazionale si muove con i piedi di piombo: non vuole né ripetere gli errori del passato, con i fallimenti del dopo Gheddafi, né favorire l’avanzata delle milizie jihadiste. L’Italia ora è prudente fra i prudenti: non manderà soldati a proteggere la sede dell’Onu – al massimo, la propria ambasciata a Tripoli d’imminente riapertura -.
“Anfibi sul terreno?”: se sì, altrui, a costo di farli venire dal Nepal – dall’Himalaya al Sahara, si sentiranno certo a loro agio quei soldati -. Le priorità sono combattere le milizie jihadiste e contrastare i trafficanti di persone, ma bisogna farlo – avverte Mattia Toaldo, un ricercatore dell’Ecfr – senza suscitare “ulteriore caos nel Paese”.
Riuniti a Vienna, i ministri degli Esteri di una ventina di Paesi attenti alle vicende libiche, insieme ai rappresentanti di Onu e Ue, ascoltano il premier libico Fayez al-Serraj, una loro creatura, e appoggiano la richiesta d’alleggerimento dell’embargo sulle armi deciso in sede Onu: “Cercheremo di revocare l’embargo e di fornire gli strumenti necessari per contrastare le milizie islamiche”, dice il segretario di Stato Usa John Kerry.
L’idea è di dare ai libici i mezzi per combattere da soli gli integralisti. Il rischio, di cui tutti sono consapevoli, è che i libici usino le armi per combattersi fra di loro. Per disincentivare chi vuole ostacolare la transizione politica, c’è la minaccia di sanzioni: togli da una parte, metti dall’altra.
Il momento in Libia è cruciale: gli jihadisti allargano la zona d’influenza intorno alla Sirte, mentre il governo al-Serraj fatica a ottenere la fiducia. Forze speciali di Usa, Gran Bretagna e Francia sono già operative a Bengasi e altrove.
Kerry elogia l’Italia, che ha con la Libia “una relazione e un interesse molto speciali”, ed è “sempre al primo posto nello sforzo” per la stabilizzazione del Paese, necessaria – spiega il ministro italiano Paolo Gentiloni – per sconfiggere il terrorismo e fronteggiare le migrazioni.
Al-Serraj, il cui governo non chiede soldati sul terreno, ma assistenza per l’addestramento, oltre che la revoca dell’embargo, avverte che “il nemico peggiore non è l’Is”, ma sono le divisioni interne: “I terroristi saranno sconfitti dal nostro esercito unito sotto il comando civile, non dalle milizie rivali che rivendicano un ruolo politico”.
Un riferimento al generale Khalifa Haftar, l’uomo forte di Tobruk, sostenuto da Francia, Egitto, Turchia ed Emirati – tutti intorno al tavolo di Vienna -, che si rifiuta di collaborare con il governo d’unità nazionale: “Spetta” al al-Serraj decidere se e come dargli un ruolo, dice Gentiloni, che cerca di smussare gli angoli; ma finora il generale se l’è preso. Così, i libici preparano offensive parallele, e magari contrapposte, invece che congiunte, contro gli jihadisti.