Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/02/2016
Il raid Usa contro una base libica del sedicente Stato islamico, a Sabrata, non lontano dal confine con la Tunisia, non ha solo ucciso presunti terroristi: sotto le bombe, sono morti pure due serbi, rapiti nell’area a novembre. L’annuncio ufficiale è venuto dal ministro degli Esteri di Belgrado Ivica Dacic: le vittime lavoravano per l’ambasciata e sarebbero state sequestrati da trafficanti d’uomini verso l’Italia.
Gli Stati Uniti hanno espresso “cordoglio” e “rammarico”, ma hanno lo stesso giustificato l’attacco, perché – spiega dal Pentagono il portavoce Peter Cook – “il capo islamico Noureddine Chouchane e gli altri jihadisti bersaglio del raid su un campo di addestramento del gruppo in Libia stavano pianificando attacchi contro gli interessi americani e altri obiettivi occidentali nella regione”.
In una sorta di gioco delle parti, il governo libico d’unità nazionale di Fayez al Sarraj, che non ha ancora ottenuto la fiducia in patria, ma che è internazionalmente riconosciuto, ha condannato il raid che, non coordinato con le autorità libiche, “è stata una chiara e flagrante violazione della sovranità dello Stato libico”. Parole concettualmente corrette, ma che fanno amaramente sorridere: come se davvero lo Stato libico avesse sovranità sul proprio territorio e come se qualcuno potesse davvero fidarsi a spartire informazioni d’intelligence con i doppiogiochisti di Tobruk e di Tripoli.
I ‘danni collaterali’ d’un’azione bellica sono un conto tragico che gli Stati Uniti sono avvezzi a fare: obiettivi sbagliati, errori di tiro, informazioni lacunose (o fuorvianti) significano ospedali, scuole, rifugi, feste di matrimonio o funerali colpiti. E la filosofia militare americana né contempla né accetta il concetto di scudi umani. Mosca, che condivide queste atteggiamenti, si limita a sollecitare Washington a una maggiore precisione.
Così, circa un anno fa, a distanza di poche settimane, raid anti-terroristi americani costarono la vita a un cooperante palermitano di 37 anni, Giovanni Lo Porto, rimasto ucciso con il collega americano Warren Weinstein il 15 gennaio 2015 sotto le bombe d’un attacco al confine con l’Afghanistan – l’italiano era stato rapito da al Qaida in Pakistan nel gennaio 2012 -. E il 6 febbraio, la volontaria Kayla Jean Mueller, un’americana di 26 anni, rimase uccisa in uno dei primi bombardamenti compiuti suu Raqqa, la capitale del Califfato in Siria – in quel caso, gli aerei erano giordani -.
Sul fronte politico, il premier libico designato al Sarraj è intanto giunto a Tobruk, per partecipare alla riunione della Camera dei Rappresentanti che dibatterà sul suo nuovo governo. Il Parlamento voleva che al Sarraj fosse presente e presentasse di persona il suo governo, la cui composizione è tuttora incerta perché alcuni ministri ‘gheddafiani’ sono contestati e altri si sono fatti da parte.
L’assemblea di Tobruk ha già bocciato a gennaio un primo governo di unità nazionale e minaccia ora di fare altrettanto e di cancellare l’accordo di pace raggiunto sotto la tutela Onu, se al Sarraj non presenterà una lista di ministri completa e gradita.
In questo contesto, dal punto di vista italiano e anche europeo, l’ipotesi di una fuga in avanti verso un intervento militare sul territorio libico appare accantonata, se non scongiurata: “Qualcuno – dice il generale Mario Arpino, ex capo di Stato Maggiore della Difesa – potrebbe passare all’azione, ma solo contro le milizie jihadiste”, cioè con interventi del tipo di quello su Sabrata nelle corde Usa. L’Italia, al momento, cerca piuttosto di capire, con qualche apprensione, quale sarebbe “il ruolo per il quale s’è candidata, a dire il vero un po’ al buio”.